Il peculato ed i suoi elementi costitutivi: quando la mera qualifica di incaricato di pubblico servizio non basta. Palmisano & De Angelis ottengono l’assoluzione piena dinanzi al Tribunale di Velletri
- Palmisano & De Angelis
- 14 nov 2024
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 13 feb
Lo Studio Legale Palmisano & De Angelis, rappresentato dall'Avv. Francesca De Angelis, ha ottenuto in primo grado l’assoluzione con formula piena del proprio assistito, titolare di una ricevitoria, accusato del reato di peculato ai sensi dell’art. 314 c.p., in continuazione ed in concorso con il co-adiutore dell’attività ex artt. 81 co. 2 e 110 c.p., per l’omesso versamento dei proventi del gioco del lotto e conseguente presunta appropriazione di denaro ai danni di una nota Società concessionaria dell'Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato.
La difesa ha dimostrato l’infondatezza dell’imputazione mettendo in risalto la carenza dell’accusa sotto il profilo dell'accertamento dell'elemento soggettivo del reato contestato.
In altre parole, aver attribuito al titolare della ricevitoria, in qualità di incaricato di pubblico servizio, una responsabilità da reato basandosi meramente sulla sua qualifica rischia di attribuire una responsabilità di natura oggettiva, in aperto contrasto con l’art. 27 della Carta Costituzionale ed il principio di personalità della responsabilità penale. Corollario ancora di più ignorato se si fa riferimento a quanto rinvenuto all’esito delle indagini preliminari, da cui - peraltro - è emersa la totale estraneità dell’imputato ai fatti di reato.
Le indagini avevano infatti rivelato che il titolare della ricevitoria aveva delegato la totale gestione dell’attività al fratello, “co-adiutore” dell’attività, da almeno due anni, disinteressandosene totalmente da allora.
Cosa significa essere qualificato come adiutore o co-adiutore? Nel caso che ci occupa indica la qualifica formale attribuita dai Monopoli di Stato a tutti i titolari di ricevitorie che, dal momento della nomina, vengono equiparati a degli agenti di riscossione per conto dello Stato Italiano.
Nel corso del processo, il fratello suindicato aveva persino dichiarato spontaneamente di aver agito da solo ed all’insaputa del titolare. E tutto ciò non è bastato ai fini di un’archiviazione né di una sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell’assistito, poiché, a detta dell’accusa, quest’ultimo avrebbe dovuto rispondere in ogni caso in quanto formalmente responsabile della ricevitoria.
Se si prosegue in questo ragionamento, si rischia di condurre l'interprete all'elaborazione di frettolosi giudizi di responsabilità che favoriscono modelli di imputazione oggettivizzante, andando a ledere il principio di colpevolezza suindicato che prevede che “il reo debba rispondere per fatto proprio”.
Come linea di difesa è stato argomentato che non è possibile riferire nei confronti di un delitto essenzialmente doloso i parametri ed i criteri tipici della colpa: un primo snodo critico è dunque rappresentato dalla (non) combinabilità di modelli di imputazione soggettiva strutturalmente diversi.
Infatti, nei reati dolosi l'affermazione di responsabilità si basa sul rimprovero mosso all'agente di essersi rappresentato ed aver voluto un fatto pericoloso o dannoso per il bene giuridico, mentre ,al contrario, nei reati colposi, il rimprovero individuale, non potendo avere come oggetto una volizione del fatto che, per lo più, non ci sarà stata, riguarderà il non averlo evitato laddove il reo avrebbe potuto e dovuto farlo, adeguando la propria condotta alle regole cautelari esistenti o, in loro mancanza, astenendosi in toto dall'agire pericoloso.
Tanto premesso, il delitto di peculato esiste nel nostro ordinamento nella sola forma dolosa.
Questo significa che il Giudice ha dovuto verificare che l'imputato si sia rappresentato correttamente gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice ed abbia poi agito con coscienza e volontà di realizzare il fatto tipico, costituendo l'elemento volontaristico il requisito determinante nella distinzione tra il dolo e la colpa.
Infatti, dalla lettura dell’art. 314 c.p., che prevede testualmente che: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi”, risulta evidente che la ratio della norma è quella di sanzionare la condotta di appropriazione indebita del reo qualora questo, con la volontà di impossessarsene e con la consapevolezza di interrompere illecitamente la relazione funzionale tra la cosa ed il suo legittimo proprietario, abbia disposto dei beni di cui aveva la disponibilità, in ragione del proprio ufficio, attraverso un comportamento uti dominus.
Alla luce delle risultanze emerse in dibattimento, unite al fatto che il fratello dell’assistito ha finanche ottenuto per sé l'applicazione della pena su richiesta (patteggiamento ex art. 444 c.p.p.), ritenuto insussistente il coefficiente psichico minimo necessario per configurare il reato di peculato nei confronti dell’assistito, la difesa ha chiesto, in via principale, l’assoluzione per non aver commesso il fatto e, in ogni caso, perché il fatto non costituisce reato ed il Tribunale di Velletri in composizione collegiale ha emesso relativa sentenza di assoluzione con formula piena nei confronti del titolare della ricevitoria precisando che, sebbene a quest’ultimo fosse rimproverabile una condotta del tutto negligente e noncurante, tale comportamento non rilevi affatto in sede di verifica circa la sussistenza del dolo richiesto dalla fattispecie in esame.

In allegato il testo della sentenza emessa dal Tribunale di Velletri (i dati sensibili delle parti sono stati oscurati per ragioni di privacy).